Recensione di Joseph Gustav Angriff-Tasten, sinologo.

sinologoCon estremo piacere rivolgo il mio sguardo verso quest’opera cui l’eugenetico giornale dedicato alla memoria del grande Kaiser Lombroso vuole donare un sì vasto spazio editoriale, la qual cosa non fece all’uscita del mio "La Cina dei Ming e la bassa Slesia di Raduciou: parallellismi ma soprattutto differenze centrate".

Devo dire, trattasi di un’opera che non conoscevo, il cui autore mi è ignoto pure, ma mi ci metto perché devo a Brododidado una certa sommetta, e poi non si questioni su queste righe assolutamente inutili dato che solo noi critici di un certo spessore possiamo scrivere tali e tante righe di sproloquio-soliloquio-vaniloquio-turpiloquio, e solitamente ci pagano pure.

Con estremo piacere ecc. ecc. dicevo appunto mi accingo a recensire quest’opera di un autore fino ad oggi ignoto ma non per molto, perlomeno – posso immaginare – alla giustizia mediatica e alla querela ad ejaculazione precoce.

Erano anni che non si vedeva un’opera poetica di tale fatta nel cenacolo vernacolo veronese, ultimamente più avvezzo all’amarone che alla lirica (come non dimenticare il sublime Manganotti: "me piase el recioto/ e brindo col goto"), quando non pescato a rovistare nell’escremento fosse esso in forma solida, solido-liquida o liquideta, ovvero gassosa o gasliquida (si ricordino a tal proposito la "Lode de la merda" di Angelo Sartori e la conseguente risposta in forma di "Lode de la scoresa" di Todaro); per dire qualcosa di più sull’atmosfera che esala da questo scritto, riporto un brano di una recensione che lessi poco meno di un anno fa su una rivista e che s’attaglia perfettamente al mezzo espressivo del nostro poeta: «…una voce che fa i conti con la tradizione italiana, ma è sempre attenta a cogliere ogni possibile parabola di un suo oltrepassamento, in cui si assiste all’emergere di un dialogo intenso fra i piccoli eventi che scandiscono il quotidiano, declinati in forma di epopea, e il continuo interrogarsi sulla percezione dell’esistere: in sintesi, la fruttuosa disputa tra azione e pensiero. Una voce che, in opposizione all’irrompere dominante del verso libero, utilizza la docile gabbia dell’endecasillabo per condurci per mano in un […] luogo da cui tutto parte e nel quale tutto ritorna, popolato di spazi, odori, corpi e voci colti in una sospesa dimensione teatrale». Il qual concetto ben si sintetizza nel verso:

che la gran vaca che i à stracagà!

che il nostro poeta pone in posizione forte all’inizio del sonetto n° 4. Buona lettura.