È un errore frequente, anche nei più avveduti uomini di giudizio, il credere che le colpe, le colpe giuridiche s’intende, siano colpe di per sé.
E il fatto che non si tratti di una distinzione sofistica apparirà forse più immediatamente se applicherete questo principio alla più nobile delle colpe, che è il furto, il quale non può e non deve in sé essere considerato una colpa, ma, semmai, la lacuna che ne consegue nelle altrui proprietà. Ora, massimamente interessante è l’applicare questo aureo principio al caso della corruzione veronese in ambito urbanistico. Perché si capisce che, così come il furto, la corruzione diviene colpa nel momento in cui priva di un bene chi possiede questo bene, ma nel caso di Veronda, a chi interessa il bene? A chi ha rubato Giacino se si faceva dare dei soldi da un mona che glieli dava? Chi danneggiava, visto che i cittadini non sapevano di possedere quel bene, quel territorio che si svendeva al miglior corruttore? Ai cittadini di Veronda, mi pare chiaro, interessava poco o punto, quel che ai veronesi premeva era che ci fossero i militari per strada a vigilare, le cartacce raccolte dalla strada e che per il resto li si lasciasse fare i loro affarucci, e perciò, io mi chiedo, dove è la colpa di Giacino? Io faccio conto che si tratti di corruzione tra privati, perché questo recitava il suo mandato: noi siamo un’azienda e facciamo girare il grano e vincere l’Hellas e vendere Pearà. E questo volevano i veronesi, e se non questo, non sapevano che cosa. Perciò io per me Giacino sarei anche a disposto a riconoscere che ha fatto bene e la sua coscienza è a posto. Se non che in realtà le conseguenze della sua corrutela hanno prodotto danno e privazione più sottili ma più infidi e odiosi dello scempio del territorio, danno e privazione che dovrebbero riguardare più direttamente le coscienze dei veronesi tutti.
Infatti io dico che la colpa di Giacino e di sua moglie, per quanto grave, non sarà mai tanto grave quanto quella del chirurgo estetico che sbatterlo all’ergastolo non farebbe ancora giustizia. Perché questo mi sembra intollerabile, che si osi operare una giovane donna nel pieno delle sue malie, una deliziosa Rebecca dagli occhi di Circe, le cui labbra forse non sono tra le migliori a rappresentare il modello erotico di riferimento, ma dalla cui sottigliezza sembrava vibrare il carattere e la più vivida intelligenza muliebre, sbatterla su un lettino e operarla allo scopo di gonfiarle quelle labbra fino a svilirle all’infimo grado del decoro, a involgarirle alla stregua di una minetti, di una soubrette da terza serata, e diciamolo, di una prezzolata! Ma da chi è andata a farsi fare le labbra, dall’infermiere del chirurgo? Dal parrucchiere della cognata? Dal barbiere di suo marito?
Già, suo marito, che dire di suo marito, di quest’uomo a cui mancarono la forza e la capacità per avvertire una giovane sposa, di fornirla dei mezzi necessari alla acquisizione della consapevolezza di quanto possa essere deleterio lasciarsi trasportare dagli impulsi del momento e alla maturazione di una personalità estetica sufficientemente matura da rinunciare a commettere un tale delitto verso un così fine e delizioso complesso somatico qual’era era il suo viso prima di ingiuriarlo a quel modo.
Ecco, ecco le conseguenze di quella che si dice colpa, a questo, fino a questo ha portato la corruttela della disgraziata città dove le quattordicenni si ficcano pugnali nella pancia e le trentenni si sfigurano il volto coi soldi dei mariti affaristi. A tali scempi, a tale degrado portano l’incuria del proprio senso estetico e la corruzione del gusto e dei costumi ed è questa la ragione per cui si dovrebbe appendere in Piazza Erbe il chirurgo della Lodi e lasciare andare per il mondo, fuori dalle mura della bella Verona, quel disgraziato di suo marito, che torni a zappare i campi da dove è venuto.